Datore condannato per estorsione se ricatta i lavoratori di licenziamento
Corte di cassazione – Sezione II penale – Sentenza 5 maggio 2016 n. 18727
Estorsione a carico del datore di lavoro che prospetti ai propri dipendenti il licenziamento in caso di mancata accettazione di condizioni capestro da lui dettate. E nel caso – precisa la Cassazione con la sentenza n. 18727/16 – erano scelte obbligate che andavano sicuramente a intaccare la dignità e il rispetto dei diritti più elementari di un lavoratore.
Le condizioni prospettate ai lavoratori – L’assunzione, infatti, avveniva solo a condizione di firmare una lettera in bianco di dimissioni, di percepire meno di quanto risultasse dalla busta paga e come se non bastasse i prestatori erano stati minacciati a più riprese di licenziamento qualora non avessero prolungato il proprio orario di lavoro. L’imputato dalla sua aveva eccepito che tra lui e i dipendenti era intercorso un accordo in base al quale gli stessi avevano deciso di accettare queste condizioni. E’ di tutta evidenza come il termine accordo previsto anche in sede civile rappresenti un incontro congruo tra due o più soggetti che poi è la formula che sta alla base del contratto ex articolo 1321 del codice civile. E se la regola ha una sua validità e importanza nel campo civile appare chiaro come debba necessariamente avere una rilevanza penale il ricatto (e quindi le condizioni lavorative proposte) dal momento che in questo caso oggetto della contesa non è un bene materiale ma in gioco c’è la dignità della persona. E sulla questione è significativo ricordare come i giudici di appello avessero ricordato come la situazione lavorativa della Sicilia, non fosse certo idilliaca anzi, ma questo non doveva lasciare la strada libera al datore di attuare una politica lavorativa minatoria.
Quando scatta l’estorsione – E’ possibile quindi, ancora una volta, riconoscere e affermare che «integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell’alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato». Nella sentenza si legge chiaramente che «anche a volere convenire che l’accettazione da parte dei lavoratori di una retribuzione più bassa rispetto a quella risultante in busta paga non bastasse di per sé sola a dare prova di una subita coercizione, non è infatti stata la forma della “libera” pattuizione ad avere trasformato, nel caso di specie, un semplice illecito civile nel reato di estorsione, bensì la modalità, resa chiara fin dall’assunzione e ribadita in costanza di rapporto, di concreta attuazione, mese dopo mese della pretesa “libera” pattuizione».