Chiedere il risarcimento per la caduta sulla scalinata di accesso al Duomo cittadino – nel caso, di Cefalù –, a causa di un gradino rotto, può trasformarsi in un vero e proprio ginepraio giuridico. Prima di rivolgersi al tribunale infatti il malcapitato deve – seguendo le regole del diritto canonico – accertare se sia responsabile la diocesi oppure la parrocchia. E – in base agli “usi pubblici” – quando ricorra invece la responsabilità del comune. Su quest’ultimo punto, tuttavia, la Corte di cassazione, sentenza n. 5841 del 28.02.2019, rigettando definitivamente il ricorso dell’infortunato (a distanza di 15 anni dal fatto), ha messo un punto fermo.
Per la Suprema corte infatti: «la responsabilità da omessa custodia di un bene destinato all’attività di culto, anche se per consuetudine asservito ad un uso pubblico, grava sul proprietario del bene e non sull’ente territoriale su cui insiste il bene, a meno che non sia dimostrata una detenzione o un potere di fatto dell’ente territoriale sulla cosa». Ed a ritenerne provata la detenzione non è sufficiente l’invito «a porre la scalinata di ingresso al duomo in sicurezza» rivolto, subito dopo l’incidente, dal dirigente del servizio comunale competente all’ente ecclesiastico. «La semplice imposizione di un vincolo di uso pubblico – spiega la decisione -, pur permettendo alla collettività di esercitarvi il diritto di servitù di passaggio, non altera il diritto di proprietà sulla medesima, che rimane privata». Tale uso, dunque, «non è di per sé in grado di trasferire il potere di fatto sulla cosa (ovvero gli oneri di custodia) sull’ente territoriale preposto alla gestione e manutenzione delle adiacenti pubbliche vie».
Accantonata la responsabilità del municipio, la Cassazione ha anche rigettato la domanda nei confronti della Diocesi di Cefalù in quanto il ricorrente non aveva provato neppure che la scala fosse sotto la sua responsabilità. Il riferimento alla legge 222/85 che disciplina la successione dei beni tra diversi enti ecclesiastici, spiega sul punto la Corte, «non è idoneo a dimostrare che la Diocesi sia proprietaria o detentrice di fatto del Duomo e delle sue pertinenze, posto che tale normativa contempla la possibilità di assegnazione di detti beni agli enti parrocchiali». Dunque, l’attore avrebbe dovuto prima dimostrare «il rapporto di fatto, ovvero la disponibilità giuridica e materiale, tra la convenuta in giudizio e la scalinata», e solo dopo agire per accertare il nesso causale tra il danno e l’omessa custodia (ex articolo 2051 c.c.).
Non solo, con un balzo all’indietro di 90 anni, la Cassazione ricorda che le leggi storicamente intervenute per regolare i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica «non consentono di svolgere ragionamenti diversi quanto alla natura privata del sagrato e di ogni area pertinenziale di un bene appartenente a un ente ecclesiastico». L’art. 15 dei Patti lateranensi (legge 27 maggio 1929 n. 848), infatti, «stabilendo che le chiese sono giuridicamente rappresentate dall’ordinario diocesano, dal parroco, dal rettore o dal sacerdote che, sotto qualsiasi denominazione o titolo, sia legittimamente ad esse preposto, non precisa in quali casi la rappresentanza spetti all’ordinario, al parroco, al rettore od ad altro sacerdote». Andando indietro di altri altri 60 anni, poi, l’articolo 18 della legge 7 luglio 1866 n. 3036, «escludendo gli edifici di culto dalla devoluzione al demanio di tutti i beni delle corporazioni religiose soppresse, in quanto appariva necessario conservare la loro destinazione a soddisfare effettive e concrete esigenze spirituali della popolazione, ha usato l’espressione edifici di culto in senso empio, si da comprendersi non solo gli edifici destinati a chiesa, ma anche i sagrati, consistenti in un’area di distacco tra le chiese e le strade o piazze su cui prospettano».
Per maggiori informazioni contatta lo Studio Legale Avvocato Valentina Conigliaro alla mail info@avvocatovalentinaconigliaro.it o al n.3284844411