Illegittimo il licenziamento se il datore non provvede al repechage. Ma il “ripescaggio” deve essere eseguito in relazione alla professionalità acquisita e, quindi, utilizzato per ricollocare il dipendente in una posizione di pari prestigio rispetto a quella rivestita in passato. In caso contrario si tratta di demansionamento che supera l’esigenza di ristrutturazione del datore di chiudere un determinato reparto. Questo in estrema sintesi il contenuto della sentenza della Cassazione n. 9869/2017.
La vicenda. La Corte si è trovata alle prese con un dipendente che, dall’ottobre 2008, aveva svolto le funzioni di responsabile del servizio dedicato alla formazione in qualità di quadro. In seguito l’azienda, per esigenze di spending review, aveva assegnato ad altro soggetto la direzione dell’impresa e il ricorrente era stato designato responsabile delle relazioni con i clienti presso la struttura di Foligno. Era stato cioè assegnato presso una sede a 50 chilometri dalla sua residenza e con mansioni inferiori. La Cassazione si è pronunciata ponendo sui due piatti della bilancia l’interesse del datore di procedere a una riorganizzazione dell’organico e il diritto del dipendente a mantenere lo stesso livello di inquadramento senza subire condizioni lavorative peggiori. Ha prevalso l’interesse del dipendete. Questo perché – si legge nella sentenza – da una parte è vero che l’imprenditore può procedere alla riorganizzazione della struttura e le modalità con cui è effettuata spettano esclusivamente all’imprenditore senza che il giudice possa metterle minimamente in discussione. Il tutto rientra, infatti, in una chiara logica di libertà di iniziativa economica tutelata dall’articolo 41 della Costituzione. Secondo la Corte, quindi, non è sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità la decisione imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo eseguito.
Il ripescaggio mirato. Nella sentenza si legge, tuttavia, che ricade sul datore l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili e, quindi, spetta al datore di lavoro dimostrare la mancanza di possibilità di reimpiego del lavoratore in posizioni dal contenuto equivalente a quella soppressa in termini di professionalità acquisita. In attuazione di questo principio non può essere ritenuta sufficiente di per sé la sola – ai fini dell’integrale adempimento degli obblighi di repechage – la proposta di assegnazione del lavoratore a mansioni di livello professionale inferiore. La Cassazione ha, pertanto, accolto il ricorso del lavoratore, cassato la sentenza e rinviato l’esame della vicenda alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
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