Lavoratore in malattia. Obblighi posti a carico e giusta causa di licenziamento.
Corte di cassazione – Sezione lavoro – Sentenza 4 gennaio 2017 n. 65.
Il lavoratore in malattia evita il licenziamento se si allontana dal domicilio comunicandolo preventivamente al datore. Non può, invece, sottoporsi il giorno successivo alla visita fiscale a controlli che accertino come il giorno prima stesse effettivamente in malattia. In questo caso la rottura con l’azienda è inevtabile. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 64/2017.
La sentenza dei giudici di merito. La Corte ha così confermato la sentenza dei giudici di secondo grado secondo cui la permanenza presso il proprio domicilio durante le fasce orarie previste per le visite mediche domiciliari di controllo costituisce non già un onere ma un obbligo per il prestatore ammalato, in quanto l’assenza, rendendo di fatto impossibile il controllo in ordine alla presenza o meno della malattia, integra un inadempimento, sia nei confronti dell’istituto previdenziale, sia nei confronti del datore, che ha tutto l’interesse a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa e perciò a controllare l’effettiva sussistenza della causa che impedisce tale prestazione. I Supremi giudici affermano come la Corte territoriale avesse esaminato accuratamente la documentazione attinente alle assenze riscontrate in occasione delle visite fiscali domiciliari e alle giustificazioni fornite dal lavoratore, rilevando, all’esito di tale accertamento di fatto, che l’allontanamento dal domicilio non era risultato essere assistito da valide giustificazioni e che, in ogni caso, lo stesso non escludeva l’obbligo per il prestatore di comunicare di volta in volta l’assenza per consentire all’azienda di controllare, tramite l’Inps, l’effettività della sua malattia. Elemento, poi, decisivo nella sentenza di merito è consistito nella circostanza che il rapporto fiduciario caratterizzante l’incarico dirigenziale comportasse una valutazione maggiormente rigorosa del comportamento della lavoratrice, dell’attendibilità dei fatti contestati a titolo di grave negligenza e dell’idoneità dello stesso, ripetuto per ben tre volte nell’arco temporale di circa due mesi a riprova del disinteresse dimostrato per le esigenze datoriali, a incidere in modo definitivo sul vincolo fiduciario.
La giusta causa del licenziamento. Sul punto è sicuramente pertinente il richiamo fatto alla sentenza n. 2013/2012 secondo cui “in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto a un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”.
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