Le espressioni su facebook contro il datore non legittimano il licenziamento

Il dipendente che posti su facebook espressioni contro il proprio datore di lavoro nonché contro il legale rappresentante non è detto che sia licenziabile. Il tutto è rimesso al prudente apprezzamento dei giudici di merito. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 13799/2017.

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La vicenda. In particolare la Corte si è trovata alle prese con una vicenda che nel merito ha registrato due verdetti completamente differenti. A fronte delle espressioni offensive su internet, infatti, il Tribunale di Cosenza ha ritenuto superflua qualsiasi attività istruttoria in considerazione della natura pacifica dei fatti posti a fondamento del licenziamento e così ha sancito la legittimità del licenziamento in quanto “le frasi utilizzate dal dipendete nei confronti del datore sarebbero consistite in un gratuita ed esorbitante denigrazione e caratterizzate dalla precisa intenzione di ledere, con l’attribuzione di un fatto oggettivamente diffamatorio, la reputazione del proprio datore di lavoro”. Contro la sentenza ha proposto ricorso il prestatore. E la Corte d’appello di Catanzaro – con sentenza del 30 luglio 2015 – ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento, con condanna della società al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto dal momento del licenziamento al dicembre 2013, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali e al versamento di ulteriori 15 mensilità a titolo di indennità sostitutiva della reintegra.

Alcune perplessità. La Cassazione, non potendo entrare nel merito, si è limitata a confermare il verdetto dei giudici di seconde cure. E qui va rilevato che qualche dubbio resta. Non si comprende, infatti, come da un giudizio di piena legittimità del recesso perché fondato su elementi gravi, testualmente il tribunale fa riferimento a frasi “oggettivamente denigratorie” nei confronti del datore con la precisa intenzione di diffamarlo, si sia passati a un giudizio di secondo grado che abbia fornito alla vicenda una lettura completamente differente, ritenendo quella frase non più così grave, rimettendo in discussione il concetto di oggettività sancito dai giudici di prime cure. Il dubbio resta. La sentenza della Cassazione, peraltro, ha chiarito come non possa ritenersi relegato nell’ambito del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile, ma in concreto privo del requisito di antigiuridicità, non potendo ammettersi che per tale via possa essere sempre soggetto alla sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti (pur sussistenti, ma) di rilievo disciplinare nullo o sostanzialmente non apprezzabile. E nel caso l’accertata insussistenza dell’antigiuridicità del comportamento, oltre che dal pur non vincolante decreto di archiviazione disposto dal competente gip, era stata adeguatamente valutata dalla corte di merito, sicchè anche per l’assenza di specifiche censure sul punto da parte della società ricorrente la censura sollevata dalla società nel ricorso per Cassazione è stata respinta.

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