Corte di cassazione – Sentenza 9 gennaio 2017 n. 317
«Falso! Bugiardo! Ipocrita! Malvagio!». Insulti pesanti, scritti nero su bianco sui manifesti di un comune siciliano, che però non integrano il reato di diffamazione ma soltanto legittima critica politica. Almeno se ad usarli è l’opposizione nei confronti del sindaco reo di non aver mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale: rinunciare all’indennità di funzione. Parola della Cassazione (sentenza 317) che oggi ha respinto il ricorso del primo cittadino del comune di Furci Siculo, contro la sentenza della Corte di appello di Messina, che ribaltando la decisione di primo grado, aveva assolto sei rappresentanti dell’opposizione ritenendo la loro condotta scriminata dal diritto di critica politica.
I consiglieri dopo aver riconosciuto la paternità dei manifesti affissi lungo le vie del comune, ne hanno però recisamente escluso «ogni intento denigratorio». Per i consiglieri si trattava di una «decisione politica diretta ad attaccare il Sindaco e la Giunta da lui presieduta, che aveva deliberato l’erogazione dell’indennità di funzione, così tradendo le promesse elettorali». Per la Corte d’Appello che pure ha ravvisato la natura «offensiva» degli epiteti, dalla lettura integrale del manifesto risulta chiaro che si tratta di critiche «pertinenti, sebbene espressione di un costume politico deteriore ma ampiamente diffuso». Per il sindaco ricorrente, invece, il diritto di critica si deve arrestare di fronte al «rispetto della dignità altrui e non può costituire l’occasione di gratuiti attacchi alla persona ed alla sua reputazione».
La Cassazione ricorda che la punibilità va esclusa «purché le modalità espressive siano proporzionate» e i toni utilizzati «pur aspri e forti, non devono essere gravemente infamanti e gratuiti» ma «pertinenti al tema in discussione». Per i giudici però «la critica, ancor più quella politica » ha per sua natura «carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica». Mentre l’esimente non scatta qualora le espressioni denigratorie «siano generiche e non collegabili a specifici episodi, risolvendosi in frasi gratuitamente espressive di sentimenti ostili».
Così ricostruito il quadro, per la Suprema corte «gli epiteti rivolti alla parte offesa presentavano una stretta attinenza alle vicende che avevano visto l’opposizione contrapporsi al Sindaco in merito alla erogazione dell’indennità di funzione, a cui il primo cittadino aveva dichiarato di voler rinunciare in campagna elettorale». L’attacco dunque «riguardava specificamente le scelte politiche ed amministrative» del sindaco e della sua maggioranza, per cui «del tutto correttamente, si è escluso che sia trasmodato in un attacco alla dignità morale ed intellettuale della persona offesa».
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