Corte di cassazione – Sentenza 4 giugno 2019 n. 15159
Se il lavoro ingenera una malessere psichico questo medesimo malessere non può essere poi usato dal datore di lavoro, accusato di mobbing, per sostenere che non gli era possibile intervenire. Lo ha affermato la Cassazione, sentenza n. 15159 del 04 giugno 2019, così di evitando di cadere in un circolo vizioso che avrebbe penalizzato il lavoratore. Il caso era quello di un dipendente del Ministero dell’Economie e delle Finanze, impiegato per oltre dieci anni come funzionario tributario, prima presso l’ufficio imposte di Camerino, poi di Tolentino e infine alla Agenzie delle Entrate, che aveva chiesto il risarcimento del danno «per comportamenti datoriali persecutori e mobbing». In primo grado aveva avuto ragione ma la Corte di appello di Ancona aveva rovesciato il verdetto. Secondo il giudice territoriale infatti sebbene fosse «evidente, quanto meno nel periodo finale della vicenda, la causa lavorativa dell’affezione», ciò «non ingenerava un obbligo giuridico, in capo al datore di lavoro, di adottare le misure necessarie per interrompere e disinnescare il rapporto causale tra malessere lavorativo e malattia conseguente, non essendo agevole, e forse neppure possibile organizzare un intervento efficace». Si doveva infatti dare per acquisito (come «nozione di fatto» non necessitante dunque di prova, ex art. 115 c.p.c) che «la malattia psichica si manifesta proprio con la incapacità di percepire l’effettiva realtà dei rapporti interpersonali, addebitando ad essi effetti che non sono veramente collegati casualmente». Il dipendente dunque avrebbe offerto una «versione prettamente narcisistica della sua attività lavorativa attribuendo al contesto lavorativo, ed agli “altri” tutta la responsabilità delle sue delusioni».
Per la Cassazione, però, un simile ragionamento non è accettabile. Con riguardo ai comportamenti di un soggetto affetto da una generica patologia psichica, infatti, non esiste alcun «fatto notorio» che può essere dato per acquisito e da cui possono desumersi determinate conseguenze. Si versa infatti in un ambito, quello medico scientifico, che per la sua «specificità» esula da una «acquisita tangibilità diffusa» e necessita sempre di un apprezzamento «tecnico».
Quanto dunque sostenuto dalla Corte territoriale, ovvero che «vi sia un nesso addirittura notorio, tra una generica “malattia psichica” e la capacità di affrontare le relazioni interpersonali, al punto di ingenerare un’impossibilità datoriale di porre rimedio allo scaturire dal lavoro di un danno per il lavoratore interessato, è affermazione apodittica e non riportabile ad una regola o ad un fatto di comune esperienza e che si colloca come tale al di fuori dell’ambito di cui all’art. 115, co. 2, c.p.c.». «Infatti – prosegue la Cassazione – le conseguenze interpersonali o socio relazionali delle malattie psichiche appartengono, allo stato, al patrimonio tipico dello conoscenze e degli apprezzamenti scientifici dell’ambito specialistico medico-legale e psichiatrico, palesemente non surrogabile da valutazioni, consequenzialmente sommarie e grossolane, del c.d. quisque de populo». Ne consegue, conclude la Corte, che risulta viziato il ragionamento attraverso cui la sentenza impugnata ha escluso la responsabilità datoriale «per impossibilità di impedire l’evento (ovverosia il danno consequenziale alle condizioni lavorative)».
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