Corte di cassazione – Sezione lavoro – Sentenza 25 maggio 2017 n. 13196
Il verdetto d’appello. In particolare la Corte d’appello di Messina con la sentenza 23 settembre 2014 aveva accolto il gravame proposto da un’associazione a tutela dei lavoratori contro un proprio lavoratore. La misura era stata ritenuta legittima in base a quanto disposto dall’articolo 10 del regolamento interno del personale che prevedeva un’incompatibilità con qualunque altro impiego pubblico o privato. Il dipendente ritenendo non corretta la decisione ha proposto ricorso in Cassazione evidenziando che svolgeva un’attività part time che, quindi, lo teneva legato al posto di lavoro solo per un numero limitato di ore. Nell’appello aveva rilevato peraltro come lo svolgimento di una seconda attività derivasse dalla necessità di integrare lo stipendio percepito pari a circa 500 euro mensili. La Cassazione ha fatto prevalere il buon senso sulla rigida lettura del regolamento interno. Secondo i giudici di legittimità, così, se da una parte è vero che sussiste una norma secondo cui risulta incompatibile ogni altro lavoro, dall’altra i giudici di merito non hanno considerato le modalità di svolgimento del lavoratore, ossia part time. Il datore, infatti, non può disporre delle facoltà del proprio dipendente di reperire un’occupazione diversa in orario compatibile con la prestazione di lavoro parziale. Una lettura di questo tipo si porrebbe in pieno contrasto con gli articoli 4 e 35 della Costituzione che tutelano rispettivamente il diritto al lavoro e la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. L’unico caso – si legge nella sentenza – che avrebbe potuto giustificare un licenziamento doveva consistere in una seconda attività che di fatto determinasse uno sviamento della clientela o che fosse di natura concorrenziale.
Conclusioni. La Cassazione sulla base delle considerazioni di merito non ha ravvisato che le due attività fossero in contrasto e quindi ha ritenuto che non fosse stato rispettato il criterio di proporzionalità tra la sanzione inflitta dal datore e l’illecito commesso dal prestatore. Rapporto questo che deve sussistere necessariamente per poter decretare un licenziamento disciplinare. In definitiva è stato accolto il ricorso del dipendete, cassata la sentenza e rinvio, anche per le spese, alla corte d’appello di Messina in diversa composizione.
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