Dare dei soldi a qualcuno per procurare alla figlia un posto di lavoro è non solo una prassi illecita ma anche contraria la “buon costume” per cui il denaro versato non può in nessun caso essere richiesto, applicandosi il principio della “soluti retentio”, vale a dire della ritenzione di ciò che è stato pagato, e non quello dell’«indebito oggettivo». Lo ha stabilito la Corte di cassazione, ordinanza n. 8169 del 3 aprile 2018, accogliendo il ricorso del presunto “mediatore” che millantando importanti «conoscenze» presso il Banco di Napoli era riuscito a farsi dare 20mila euro a titolo di compenso per il posto promesso. Siccome l’assunzione non era andata a buon fine, il padre della ragazza aveva proposto domanda di restituzione della somma affermando che il convenuto era stato assolto per prescrizione dalle denunzia per truffa e millantato credito.
In primo grado, il Tribunale di Torre Annunziata aveva rigettato la domanda per mancanza di prove ma la Corte di appello di Napoli, riformando la decisione, ha condannato l’appellato alla restituzione di quanto percepito, oltre interessi e spese legali, affermando che «non doveva trovare applicazione la soluti retentio ma la disciplina dell’indebito oggettivo, poiché il versamento di denaro era avvenuto in violazione anche di norme imperative e non del buon costume».
La questione, oltre che per la sua particolarità, si sottolinea perché sottende un contrasto giurisprudenziale. L’ordinanza ricorda che la Cassazione in passato ha affermato che la «nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata al livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente». Aggiungendo che sono irripetibili, ai sensi dell’articolo 2035 del codice civile, i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative (n. 5371/1987). Più recentemente i giudici di legittimità hanno scritto che «chi ha versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume» (n. 9441/2010). Nello stesso anno però una ulteriore decisione (35352/2010) ha stabilito che la «natura illecita del patto intercorso con la vittima di una truffa non impedisce la condanna dell’imputato alla restituzione della somma di denaro versatagli dalla vittima, perché solo la prestazione contraria al buon costume sarebbe assoggettata alla soluti retentio, mentre l’illiceità della causa del contratto per contrarietà all’ordine pubblico determinerebbe l’applicazione della disciplina dell’indebito oggettivo».
Per la VI sezione civile va confermato il precedente indirizzo. Infatti, spiega la decisione, la consegna di una somma di denaro «ai fini di un interessamento per l’ottenimento di un posto di lavoro mentre configura certamente un negozio contrario a norme imperative, e quindi illecito, integra anche gli estremi del negozio contra bonos mores, posto che è contrario al concerto di buon costume comunemente accettato il comportamento di chi paghi del denaro per ottenere in cambio un posto di lavoro (e ciò a prescindere dall’esito, magari anche negativo, della trattativa immorale)». La Corte napoletana, tuttavia, continua la Cassazione, pur ricostruendo in talo modo la fattispecie, è pervenuta alla «non condivisibile conclusione secondo cui se la condotta, oltre ad essere immorale, è anche illecita per contrarietà all’ordine pubblico, non si applicherebbe il regime dell’art. 2035 del c.c.». Va invece ribadito, conclude l’ordinanza, che la «contemporanea violazione, da parte di un medesima prestazione, tanto dell’ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume». Ne consegue che il pagamento «non poteva, come ha sostenuto la Corte d’appello, essere inquadrato nell’ipotesi dell’indebito oggettivo, bensì imponeva l’applicazione dell’art. 2035 c.c.», secondo il noto brocardo romanistico per cui «in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis».
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