Va considerato illegittimo, in quanto ritorsivo, il licenziamento di un dipendente assunto a tempo indeterminato a seguito di una vertenza giudiziaria, per aver pubblicato su una chat privata di Facebook, nella quale i lavoratori si scambiavano informazioni sull’incontro sindacale per il rinnovo del contratto integrativo, una immagine raffigurante un coperchio di vasellina cui era sovrapposto un disegno ed il marchio Gucci. Lo ha confermato la Corte di cassazione, con la sentenza 31 gennaio 2017 n. 2499, dichiarando inammissibile il ricorso dell’azienda.
Nel dicembre del 2012, la società aveva licenziato il dipendente per «motivi disciplinari» accusandolo di aver «gravemente offeso l’immagine dell’azienda». Il dipendente, però, aveva proposto ricorso e il Tribunale di Firenze l’ha accolto ritenendo insussistente la violazione disciplinare «per essere stato esercitato il diritto di critica e di satira». Proposto reclamo, la Corte di Appello l’ha rigettato. Per il Collegio infatti «l’addebito disciplinare rappresentava un pretesto per allontanare un lavoratore rientrato da appena un anno in esito al precedente contenzioso, che si era dimostrato, con la partecipazione attiva alla chat, per nulla remissivo alle iniziative datoriali sulla organizzazione dei lavoro, cercando di coinvolgere altri colleghi nella contestazione nella fase di rinnovo degli accordi sindacali aziendali». Non solo, data la «banalità del fatto contestato» consistito nel pubblicare l’immagine di una vignetta satirica «non dissimile dalle rappresentazioni quotidianamente diffuse dai mass media», era del tutto assente un motivo legittimo di licenziamento. Inoltre il disegno aveva ricevuto una diffusione limitata ai dieci colleghi della chat. Mentre l’accesso dall’esterno restava del tutto eventuale. E comunque non risultava che la vignetta avesse avuto diffusione sul web né che potesse avere qualche interesse per il pubblico degli acquirenti del marchio Gucci.
Nel ricorso in Cassazione la società, invece, ha insistito nel negare la natura ritorsiva del licenziamento, non essendo stata offerta alcuna prova in merito, dal momento che la precedente controversia era stata conciliata tra le parti. Inoltre era stato licenziato anche un altro dipendente. Tantomeno poteva invocarsi il diritto di critica, considerato che «l’immagine era gratuitamente lesiva del decoro del datore di lavoro». Infine la sentenza non offriva alcuna giustificazione della asserita «banalità» della pubblicazione, non considerando «la lesione dell’immagine del gruppo». Per la Suprema corte però la questione è inammissibile «giacché il giudice del merito ha considerato la potenziale lesione dell’immagine aziendale derivata dalla condotta contestata che ha escluso argomentando sulla limitata diffusione della vignetta (tra i dieci partecipanti alla chat) e sulla assenza di prova di una sua divulgazione all’esterno dell’ambiente di lavoro». E al caso si applica ratione temporis il vigente testo dell’articolo 360 n. 5 del cpc secondo cui il vizio di motivazione è deducibile soltanto in termini di omesso esame di un fatto decisivo.
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